Marianna e matita
Marianna e matita
8 Novembre 2018

Ho chiesto ai miei genitori cosa ne pensano delle parole offensive

Lo scorso mese ho deciso di iniziare un serie di post dedicati alle parole e al loro uso in rete (qui puoi leggere il primo post). Alla responsabilità che abbiamo come persone riguardo alle parole che facciamo circolare e come siamo in grado di renderle brutte.

Via dalla pazza bolla again

Io vivo nella cosiddetta “bolla”. Sono trentenne, colta, bianca, benestante, progressista e mi circondo, volente o nolente, di persone come me, intelligenti, aperte, probabilmente di sinistra. Ci parliamo e approviamo tutto quello che diciamo. È un continuo pat-pat sulle spalle, cinque alti, cuoricini e applausi a ogni post, newsletter, conversazione, racconto.

Ma appena mettiamo un piedino fuori dalla nostra bolla di consenso, le cose cambiano. Il famoso “Paese reale” è tutto un altro campionato. Ci sono gli analfabeti funzionali, i razzisti, gli omofobi, i misogini, gli ignoranti, gli anziani. Pare che il 70% degli italiani non capisca cosa legge e cosa guarda. Anche se è andata a scuola, intendiamoci.

Per me, come si parla, quello che si dice e come lo si dice, specie online, è cruciale. Se ne parlo con i miei amici e colleghi: tutto bene. Ma se parlassi di queste cose con altri? Come andrebbe a finire?

Ti presento Carla e Gianfranco

Ho deciso di iniziare un viaggio di confronto sulle parole. E ho deciso di parlare con chi è molto diverso da me. Però non volevo mettermi subito i bastoni tra le ruote. Quindi, ho scelto di parlare con mia mamma e mio papà.

Carla ha da poco compiuto 71 anni, è in pensione, è stata impiegata tutta la vita, è la persona che legge più libri di mia conoscenza e ama ricamare. Gianfranco ha 64 anni, è in pensione da luglio, ha milioni di interessi (dalla musica, ai film, alle lingue) e odia prendere l’aereo. Sono entrambe persone dotate di sense of humor, mediamente colte, curiose, scafate e di mente sufficientemente aperta. Vivono in un paese di provincia, non hanno molti amici e non usano i social e non li capiscono molto.

Non ci siamo menati, per dire

L’altro giorno ci siamo seduti intorno al mio tavolo della cucina e abbiamo chiacchierato di parole e, in particolare, di parole “brutte”. Se vogliamo ancora più scendere nel dettaglio abbiamo parlato di negro e frocio. Ho parlato con loro perché so che su alcuni argomenti non la vedono come me e volevo capire una cosa prima di tutte: si può parlare civilmente di un argomento che è spinoso e sul quale i due interlocutori non concordano? Siamo parecchio fumantini in famiglia e temevo lo scontro. Invece, con mia sorpresa, è stato tutto molto pacato, sereno e, almeno per me, utile. E la cosa interessante è che, alla fine di questa conversazione, anche io mi sono trovata piena di dubbi. Te ne parlo qui sotto. Quello che è emerso, infatti, è:

Non ho speranza che questo Paese possa migliorare

Quando ho detto a mio papà che, se ci esprimessimo meglio e facessimo uno sforzo per articolare quello che diciamo in maniera più pacata, costruiremmo un mondo migliore, mio padre ha replicato: “Ah, non ho speranza che le cose in questo Paese possano migliorare”. Ecco, io credevo che vedere il futuro nero fosse tipico della mia generazione precaria. Sentirmelo dire da mio padre mi ha molto colpito. E quindi mi sono chiesta: you may say I’m a dreamer? E ancora: la parole quindi non contano niente?

Stiamo diventando troppo politicamente corretti?

Se dobbiamo controllare ogni singola parola per timore di offendere qualcuno, rischiamo di limitare la nostra libertà di parola per rinchiuderla nella gabbia del politicamente corretto a tutti i costi? Stiamo esagerando? Questo è un nodo davvero molto duro da sciogliere. C’è un documentario bellissimo su Netflix (e che dura solo 15 minuti) che parla proprio di questo e si chiama Il politicamente corretto. Guardalo perché ti darà molto da pensare.

Sono solo parole?

NeGro o nero. È soltanto una G. “Una G può fare la differenza?” si chiede mia mamma. Certo che sì dico io. Non è tanto la G, ma è l’intenzione che è chiusa in una sola lettera. L’intenzione di essere dispregiativo, di ferire, di farti sentire diverso, inferiore a me. E lo faccio per rimarcare la differenza più palese: il colore della tua pelle.

Certe parole si possono dire per scherzo?

Esempio: se ho un amico gay, parliamo di musical a Broadway, e gli dico: “Madonna, i vestiti di paillettes di Kinky Boots sono una frociata pazzesca” è ok o no? Se mi conosce, lo dico a mo’ di battuta e sa che non sono omofobo, è una cosa che si può dire? E se non si può dire: perché? Scherzo e intimità possono giustificare un linguaggio più colorito (inappropriato)?

Io mi sono fatta questa domanda e penso che non userei mai parole di questo tipo davanti ai miei amici gay. Ma se mi scappa, è la fine di un’amicizia? A me se dicono ridendo: “Ammazza oggi ti sei truccata che sembri un puttanone” non è che penso veramente che mi stiano dando della puttana, per dire. Però inizio a dubitare che i pennelli di Kiko servano a qualcosa!

Il tempo cambia le cose?

Qualche mese fa ho guardato su Netflix uno show di Eddie Murphy del 1983 (ha la mia età!). Si chiama Delirious. Nei primi dieci minuti dello spettacolo, Eddie fa tante ma tante di quelle battute sui gay, ma pesanti, chiamandoli continuamente faggots. Io mi sono sentita tantissimo a disagio e ho interrotto la visione. Era spiacevole e triste. Quello che forse mi avrebbe fatto ridere 35 anni fa, ora mi fa orrore. Come saranno quindi le cose tra 35 anni?

Solide certezze di una sognatrice

Grazie al cielo, tra tantissimi dubbi, ho una certezza, sempre più forte, nata proprio da questa conversazione con i miei genitori. L’unico modo per allenare la mente a essere elastica, come manco Carla Fracci a 99 anni, è quello di conoscere gente diversa da noi: gay, neri, trans, anziani, gente che vota il contrario di quello che votiamo noi. Tutti. Per comprendere. Metterci in discussione. Dubitare. Per imparare a famigliarizzare e capire che, forse, gli altri non sono tanto lontani da noi. Alcuni, eh? Perché certe persone si sono allontanate irrimediabilmente. Ma forse, con le parole giuste possiamo creare un ponte. O sono di nuovo un po’ dreamer?

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