Mettersi in viaggio. Cosa ho imparato dentro a una cisterna a Copenaghen
Mettersi in viaggio. Cosa ho imparato dentro a una cisterna a Copenaghen
4 Giugno 2019

Mettersi in viaggio. Cosa ho imparato dentro a una cisterna a Copenaghen

So che di meraviglia qui su questi schermi ne ho parlato già tantissimo. E, giustamente, tu ti sarai anche rotto i cojones. Però, ti avviso, questo è un altro post sul rimanere come scemi a bocca aperta.

Un paio di settimane fa sono andata a Copenaghen da sola

Ci sono rimasta per 5 giorni. Per me viaggiare è una delle cose più belle che la vita mi possa regalare. Ogni volta torno arricchita nella mente e nel girovita! Non solo: proprio perché ero sola, ho avuto modo di meravigliarmi di un sacco di cose all’ennesima potenza. Non è che a Copenaghen abbia visto dei draghi volare (cioè, li ho visti, era l’ultima puntata di Game of Thrones, a me non è piaciuta, ma sto divagando…). Però durante questo viaggio anche le cose più banali mi hanno stupita. E tutto questo stupore è davvero energizzante.

Oggi vorrei scrivere un’ode al viaggio

Che tu vada da solo, in coppia o in gruppo. Che tu parta per un mese, una settimana o un weekend. Che tu abbia un budget stellare o poche centinaia di euro. Che tu vada a 10mila km di distanza o a dieci. Non importa. Se sei una persona creativa, e so che lo sei sennò non saresti qui, sai che viaggiare è vitale.

Le lezioni più importanti che ho imparato in questo viaggio sono due e voglio condividerle con te.

1. Ti senti perso

Scendi dall’aereo e segui il flusso degli altri passeggeri, convinto che “Sì, loro sanno dove andare”. Devi avere mille occhi e ti vengono cento dubbi in pochi secondi: “Ma dov’è il cartello della metro? Era qui fino a tre metri fa… dove vado?”. “Prendo l’abbonamento per 3 o 5 zone?”. “È tutto scritto in danese: chissà se questo treno ferma in centro?”.

Arrivi in città e i negozi sono simili, certo, ma anche diversissimi. Tipo: a Copenaghen non c’è Acqua&Sapone ma Normal. È uguale, ma non lo è. E perché all’estero la Algida ha sempre nomi diversi?

Il semaforo è sempre lontano anni luce da quelli italiani: ha il conto alla rovescia, ha il segnale acustico per i non vedenti, non ha l’arancione e scatta dal verde al rosso in un millisecondo e quasi ti stirano.

I negozi al sabato chiudono alle 15 e tu pensi: “Ma stiamo scherzando? Voglia di lavorare zero, eh? E io dopo che faccio?”.

Però a me piace

A me questa sensazione di straniamento piace tantissimo e me la godo tutta. Mi piace perché sento una scossa di adrenalina incredibile quando capisco che riesco a cavarmela. Che i bus sono tentacolari ma con Google Maps è un attimo. Che ‘sticazzi se i negozi sono chiusi, andrò al parco. Che cosa di un altro pianeta mangiare sperimentando, mettere la lingua a contatto di consistenze e sapori che non ha mai incontrato prima. Che bello sentirsi un po’ goffi e chiedere indicazioni in inglese. Che bello abituarsi a mangiare molto presto, o molto tardi, a fare colazioni abbondanti, a non trovare il cappuccino come al bar sotto casa. Che bello bastarsi.

2. Ti senti ritrovato

Passano due-tre giorni e hai trovato la tua dimensione, anche lontano da casa. Hai adattato il tuo orologio interno, le tue abitudini, hai le tue mappe geografiche già memorizzate nel cervello. Non sei proprio local, ma quasi.

Poi finisci come me a visitare qualcosa di inaspettato e ti dà la scossa definitiva. E ti senti felice, e ti senti bene, e ti senti invincibile.

Mi è capitato quando sono andata a visitare Cisternerne, un museo all’interno di una cisterna dell’acqua di fine ‘800. Diluviava. Il museo non è facile da trovare. È dentro un parco, in cima a una collina, in una zona non proprio centralissima. Quando sono arrivata, ho faticato a trovare l’ingresso e, quando c’ero davanti, mi sono accorta che i jeans si erano così inzuppati che avevano ciucciato acqua su tutte le gambe, su su fino all’inguine. L’ingresso del museo è grande come una scatola di fiammiferi e un cartello ti avvisa che stai entrando a tuo rischio e pericolo.

Ho sceso una lunga scala verso il buio e mi sono trovata in una sorta di spogliatoio: qui ho cambiato le mie Adiadas fradice con un paio di stivali di gomma gialla.

Nell’acqua e nel buio

Ho iniziato a camminare nella cisterna, tra le colonne di pietra che la sorreggono. A ogni passo l’acqua saliva, finché non ero con le caviglie immerse. Tutto intorno, solo qualche fioca luce violetta. In certi punti, buio pesto. Ero sola, nel buio e sentivo solo lo sciff-sciaff dei miei piedi e di quelli dei pochi altri visitatori. Nel punto con più acqua e più buio, mi sono fermata e mi sono guardata intorno. È stato allora che me ne sono accorta: stavo girando con la bocca spalancata da circa 10 minuti. Ero completamente stupefatta. Una cosa del genere non l’avevo mai vista in vita mia.

Tutto inizia in viaggio

Avevo preso un aereo 48 ore prima, ero a 1.550km da casa, sola e avevo scalato una collina sotto il diluvio, per arrivare dentro a una cisterna sottoterra, piena di buio e acqua. Ero stupita, infreddolita, elettrizzata, felice come non lo ero da tempo.

Ho fatto ancora qualche passo nel buio e nell’acqua e sono arrivata al fondo della cisterna. Sul muro, appesa, una scritta blu al neon: It’s not the end of the world / Non è la fine del mondo.

Parti, vai, perditi, ritrovati. Sarà bellissimo, forse ti farà un po’ paura, ma non sarà mai la fine del mondo.
Anzi.

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