Vivere per lavorare
Vivere per lavorare
25 Maggio 2017

Vivere per lavorare

Io sono quella che certe riviste chiamano workaholic. Sono drogata di lavoro. Il mio lavoro mi piace moltissimo e lo faccio volentieri. A volte capita che lo odi e sono stanca, certo. Ma sono momenti rari. La maggior parte del tempo sono felice e carica a molla all’idea di fare quello che faccio.

L’altro giorno su Facebook mi hanno detto che non si deve vivere per lavorare, ma lavorare per vivere. Sono d’accordo? Onestamente non lo so. O meglio: sono d’accordo in senso generale, ma per me medesima, purtroppo o per fortuna, non lo so, non funziona così.

Io sono proprio contenta di vivere per lavorare. E lo sono per una serie di motivi:

Dà un senso ai miei giorni (e qui parte Vasco)

Detta così sembra che senza il mio lavoro sarei una larva o un moscerino di quelli inutili che vola in giro e non si capisce bene a cosa serva. Eppure è così: alzarmi alla mattina non mi pesa praticamente mai. Sento una specie di senso di compiutezza, con le cose che sto facendo con Zandegù. Non è solo che le faccio bene (o almeno così mi pare), o che mi piacciono, o che mi portano lo stipendio. È il fatto che mi sembra di creare qualcosa di buono per gli altri, ogni giorno, col mio lavoro, per quanto questo “qualcosa” sia piccolo e non di primaria necessità.

Mi salva, come un San Bernardo sulla neve

Diciamolo, la vita è spesso dura. Quando ho problemi, io mi concentro sul lavoro e così facendo riesco non pensare a nient’altro o quasi. Ragionare su corsi, ebook e post da scrivere mi distrae, mi impegna, mi stanca, mi aiuta.

Non mi pesa

Quando lavoravo da dipendente, ogni mattina la sveglia sembrava una sentenza di morte. Oggi non mi sveglio di certo come Biancaneve, cantando e facendomi vestire da topini e passerotti, ma diciamo che lo faccio senza pensieri suicidi! Sono contenta di lavorare anche alla sera e pure al weekend, cose per me impensabili fino a pochi anni fa, quando credevo di avere la forma mentis per le classiche 8 ore in ufficio. E, invece, è chiaro che mi hanno progettata per questo lavoro e lo faccio andando avanti come un treno.

Mi arricchisce (dentro, non nel portafoglio)

Nel bene o nel male, nel mio lavoro ci metto proprio il cuore (a volte risulto pure un po’ scemotta, ma pazienza). E gli altri lo capiscono e ricambiano con un pezzetto del loro: hai idea di quanto ‘sta cosa sia figa? È incredibile, dà una carica che manco la RedBull, ti arricchisce umanamente, ti spinge a migliorare.

È il mio grande progetto di vita

Io non so te e gli altri, ma immagino che tutti abbiano un progetto nella vita. Che ne so: girare il mondo, salvare una persona, fare un figlio, avere un frutteto, combattere le ingiustizie vestiti alla marinara, divertirsi il più possibile, eccetera. Ecco, il mio progetto di vita è Zandegù. A 20 anni non lo sapevo, e forse non lo sapevo nemmeno tanto bene a 29 quando ho riaperto, ma oggi lo so. Zandegù è tutto per me: ci ripongo sogni, aspettative, speranze. Ho grandi progetti per la sua crescita e voglio vederla forte e sana, così quando non ci sarò, potrà camminare autonomamente. Diamine, è troppo? Certo che è troppo. Potrei fallire tra pochi mesi, un terremoto potrebbe distruggere la sede, i corsi potrebbero non interessare più a nessuno, potrei fare scelte sbagliate, eccetera. Ti dicono sempre che i buoni investimenti sono quelli diversificati, eppure, emotivamente, io non ci riesco. Sarò drogata di Zandegù, ma io mi ci vedo a crescere con lei, perché per me è l’all-in della mia vita.

Oh, però una vita ce l’ho, eh?

Ci tengo a precisare che quando esco dalla Zandecasa non è che mi piange il cuore o che sento di non avere un senso fuori dai muri di via Exilles. Sono contentissima di tornare a casa, uscire con gli amici, staccare, passare le giornate sul divano, fare gite. Ho altre passioni, ovviamente, tipo mangiare e viaggiare (sulle scarpe soprassiedo, perché non voglio essere ridotta a un clichè!). Viaggiare è in assoluto la cosa che preferisco al mondo e, con tutta probabilità, per gli stessi motivi per cui amo Zandegù (mi arricchisce, non mi pesa, dà un senso alla mia vita, eccetera). Quindi, sì, mi rendo conto della differenza tra le due cose. Il fatto, molto semplice, è che non sono di quelli che non vedono l’ora che l’orologio segni le 18 per uscire dall’ufficio e iniziare a vivere.

Ti pagano per vivere

Ho cominciato a lavorare relativamente presto, a 21 anni. Tra qualche tempo, non troppo lontano, metà della mia vita l’avrò passata con Zandegù. So che molti saranno inorriditi a sentire che il 90% della mia giornata è fatto di lavoro, che non mi pesa, che penso a quello da mattina a sera, che ne faccio il centro della mia esistenza, che ne parlo sempre anche a cena perché è di sicuro la cosa più interessante di me. Però è così. So che sono soggetta a critiche, ma lo dico anche con estrema serenità. È quello che sono. Zandegù c’est moi.

Concludo con un aneddoto. Un giorno, un mio amico mi ha detto che la figata di tutti questi guru – della cucina, del design, della moda, quelli che vediamo in Tv (e di cui ho parlato alla nausea in un sacco di post, tipo Paula Scher) – è che, in pratica, vengono pagati per vivere. Perché il lavoro, la creatività, la passione per quello che fanno è talmente radicata in loro che non potrebbero fare altrimenti. Il lavoro è quello che sono. E la cosa bella è che vengono pure pagati. Gli ho chiesto: ma secondo te sta capitando anche a me? E lui mi ha detto: secondo me un po’ sì.

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